Negli ultimi anni si è parlato molto di salute mentale, ansia, depressione e inadeguatezza. Ripercussioni sul piano del disagio psicologico si sono registrate in molte persone, soprattutto tra i giovani che si sono sentiti minacciati dal loro stesso pianeta e dai loro stessi abitanti che li priva costantemente del loro futuro. È la cosiddetta “pandemia psicologica”. Nessun paese è immune, ogni cittadino è stato “infettato” da questo virus ancor più devastante del Covid-Sars 2019. Questo virus mentale ha la tendenza ad andare a scavare nell’animo: è come una trivella, scava per andare in profondità. Scava col fine di smascherare le vere intenzioni di una persona. Attraverso questa profonda introspezione l’essere umano scopre di racchiudere in sé due differenti nature, il bene e il male. Questa pandemia psicologica cercherà inevitabilmente di dominare la persona che ne è affetta. È appunto lo sdoppiamento, che risiede nei pensieri dei giovani: un senso di disagio dove l’io interiore è tormentato dalla sua condizione di “estraneo alla vita”. Un distacco dalla propria vita risulta necessario per evitare il dolore che appunto la stessa vita provoca. Consiste nel contemplare la realtà ad una certa distanza, per guardare in una prospettiva diversa e da estraneo tutto ciò che è normale, di routine. Solitamente i giovani in queste circostanze indossano delle maschere a seconda delle situazioni. La maschera è uno schermo, messo sul volto di un attore per interpretare al meglio il proprio personaggio. Una cosiddetta recita. Togliere la maschera significa liberare i personaggi dalle convenzioni sociali, per poi vivere una vita dolorosa ma, nello stesso tempo più autentica. Indossando continuamente una maschera si è però costretti al recitare per sempre un ruolo che non li si addice, non c’è più la distinzione tra l’essere e l’apparire. Si rimane quindi imprigionati nella trappola delle convenzioni sociali, ovvero un insieme di regole o criteri accettati da un determinato gruppo sociale. Non sono leggi scritte, ma è come se lo fossero. Quando la ribellione porta a rifiutare queste convenzioni, si cade nel tranello della mente: i ragazzi si sentono, appunto, diversi, uno scarto, o addirittura strani. Costretti non obbligatoriamente ma collettivamente a seguire determinati standard per non essere considerati inadeguati. Oggi l’umanità con questa emergenza sanitaria è stata in un certo senso messa a nudo. Un esempio di maschera che adesso indossano tutti al di là di tutto, è la mascherina chirurgica. La pandemia ha smascherato nella nostra fragilità il nostro essere fragili. Se prima i ragazzi erano insicuri, adesso lo son ancor di più. Ne è esempio lampante il “mask-fishing”: la paura di apparire diversi da quello che si è; di spogliarsi, in un certo senso. Anche il solo abbassare la mascherina crea disagio. Con mezzo volto coperto gli uomini post covid si sentono al sicuro, questo perché si ha la paura del giudizio degli altri. Con solo la parte superiore del viso scoperta ci creiamo delle aspettative diverse o migliori. Si assiste frequentemente anche a casi di dismorfismo e di ansia sociale sicuramente connessi al mask-fishing. La dismorfia è quando una persona si guarda allo specchio ed è come se non si sentisse di appartenere a questo mondo. La fobia sociale è la paura di stare con gli altri, la paura di farsi degli amici ed entrare nei discorsi. Sono così preoccupati di poter essere giudicati negativamente dagli altri che chi ne è affetto evita di fare o dire qualsiasi cosa. Per esempio, quando arriva il momento di postare una foto su un social l’ansia prende il sopravvento. Il cellulare procura un dolore fisico, anzi, più che altro psicologico. Se un loro post fa pochi like questo causa un impatto negativo sul loro umore, e soprattutto sull’autostima. La paura di essere tagliato fuori, la sensazione che per nessuno sono interessanti. Io penso che in un modo o nell’altro alla fine di un tunnel ci sia sempre la luce. Fioca, ma c’è. Come una lanterna che ti mostra dove andare, quale via percorrere, che ha il compito di mostrare la realtà. Realtà non sicura, perché la luce in fondo al tunnel, così come la lanterna, illumina ben poco, dandogli una versione soggettiva della realtà che non appare quindi per quello che è. Tutto ciò che non viene illuminato è buio, quindi l’individuo è come se fosse in trappola, non conoscendo appunto quello che si trova nella parte nascosta della luce. Per questo i giovani si pongono continuamente ciò che è reale e ciò che non lo è, se la realtà che vive è realmente reale. Se lui è veramente lui. Sono continuamente preoccupati dal mondo, ripercorrendo il proprio tentativo di sottrarsi a una condizione di vita alienata, nella quale si sentono degli inetti, afflitti assiduamente da una lotta interiore e destinati a un loro presunto fallimento. Il primo passo che intraprendono è l’evasione. Trovano rifugio nella solitudine, in un mondo tutto loro, privo di preoccupazioni e di limitazioni. Scappano dalla realtà trovandosi in una specie di limbo, in una separazione tra realtà e sogno, fra vita e forma. Grazie allo scappare dalla realtà, vivono il presente come “durata pura”: vivono il presente con la memoria del passato al fine di avere anticipazioni sul futuro. Un futuro non tanto lontano, perché al giorno d’oggi i ragazzi sono costretti a maturare più velocemente. Vedono infatti la famiglia come una trappola, come un luogo dove non si possono instaurare dei rapporti autentici; un ambiente opprimente, pieno di tensioni e menzogne. Vi sono infatti sempre più famiglie allargate, dove ovviamente subentrano i vari partner dei genitori che educando in maniera diversa i ragazzi causano confusione in quest’ultimi. Ed è per questo che loro sono sofferenti : desiderano essere liberi, di fuggire. Ma non è sempre così. La famiglia è anche un nucleo protettivo. Si basa sulla convinzione che per vivere bisogna rimanere attaccati a essa, le cosiddette “teoria dell’ostrica” di Verga e il concetto di “nido” di Pascoli. Non devono mai lasciare quello che hanno, perché andranno incontro alla sconfitta, infatti come si dice: “mai lasciare la strada vecchia per quella nuova, si sa quel che si lascia e non si sa quel che si trova”. È un ambiente accogliente, protetto da qualsiasi male. Io sono del parere che la famiglia, non è né un ambiente da cui scappare via, né un ambiente da cui essere troppo attaccati. Anche io, essendo una ragazza nata nel ventunesimo secolo, sto vivendo questo periodo in silenzio. A volte mi lancio in tormenti così grandi che la realtà in cui torno dopo poco mi destabilizza. Mi sono abituata al peggio, perciò stare nel meglio mi fa sentire a disagio, quasi imbarazzata dallo stare bene, e così voglio tornare a stare male, e per farlo applico il mezzo del senso di colpa. Senso di colpa che deriva nel vedere quello che sta succedendo in Ucraina, dove bambini e ragazzi della mia età scappano via dalla guerra mentre io sto qui a casa protetta e al sicuro. Arrivo a non saper più distinguere il mio stare male dal mio fingere di non stare bene. Penso di avere una vocina dentro di me, una vocina diversa dagli altri. Mi parla sempre del suo futuro, di cosa vorrà fare da grande. La tortura di questa vocina è proprio questa : io sono costretta ad ascoltarla, a sentirla parlare dei suoi obiettivi. Il suo difetto è che non riesce a vedere il presente così come lo vedo io. Un presente pieno di morte, così vuoto di speranza. Ed è il difetto della vocina, avere ancora speranza. Credere per noi un futuro ci sia.
Gabriella Checchia
5^A IPSSAR